Qui bisogna che parli della mamma. Dopo che venni interrogata dal giudice istruttore, ricevetti il permesso di essere visitata. Venne la mamma. Io avevo paura: paura di farle male, paura che avesse troppo male. Ed avevo una voglia immensa di vederla. Quella mattina c’era stato un allarme aereo ed io non potevo sapere che la mamma era stata colta alla stazione di Porta Nuova. Era in lutto di mia nonna e, come le donne della sua età e dell sua condizione in quell’epoca, portava un lungo velo nero sul cappello che si era messa per venirmi a vedere. La poverina non seppe dove meglio nascondersi al momento dell’allarme e si mise sotto il treno fermo in stazione, lacerando quel velo che le alitava dietro melanconico come l’ala spezzata di un uccello.
Quando mi apparve dietro alla doppia inferriata, ebbi paura che svenisse. Mi affrettai a dirle: “Spero, mamma, che tu sappia che non sono una delinquente e che non ho fatto nulla di cui tu abbia a vergognarti”. Con mia enorme sorpresa, la mia mamma fissò nei miei i suoi occhi azzurri profondamente cerchiati di viole e mi rispose: “Tuo padre ed io sappiamo chi abbiamo allevato e perché. Non abbiamo nessun motivo di vergognarci di te. Del resto, non sei nemmeno la sola nella famiglia. Tuo cugino Vittorio in questi tempi e per gli stessi motivi si trova a Roma al Regina Coeli”.

(Tratto da Monica Schettino (a cura di), Una storia non ancora finita. Memorie di Anna Marengo, Varallo, 2014, p. 73)


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